Simulatore

#1
Tra meno di due mesi inizierà la mia avventura al Collegio del Mondo Unito dell’Adriatico. Quello che provo è un misto di gioia euforica, sollievo da capogiro, e paura matta. Gioia per le persone che incontrerò, le cose che studierò e la vita che farò. Sollievo per avvicinarmi a dare una direzione alla mia vita. Paura di non reggere le troppe emozioni.
Per questo, la cosa che un altro anno sarebbe stato l’avvenimento maggiore dell’estate è passata totalmente in secondo piano. Sto tornando in Polonia! Mi fermerò due settimane a Krosno per un masterclass di violoncello. Polacco e violoncello per due settimane, cosa posso chiedere di più?

Sono curiosa di sapere cosa proverò, una volta arrivata lì. L’ultima volta che sono stata ad un masterclass in Polonia è stata l’estate scorsa. Non avevo ancora deciso se partecipare alle selezioni regionali UWC, e in quella settimana ero quasi convinta di non partecipare. Perché? Me lo ricordo bene. Le alternative per i due anni successivi erano il biennio ad un Collegio del Mondo Unito oppure un anno in Polonia e uno di nuovo in Italia. E in quei giorni a Cracovia la sensazione di essere a casa mi aveva investito come un’onda prepotente, rubandomi il fiato. Sapevo di voler costruire la mia vita futura proprio lì. Non lì a Cracovia – troppo simile alle città dell’Europa occidentale -, ma da qualche altra parte in Polonia, magari nella regione povera intorno a Varsavia, o forse in una cittadina tra i monti Tatra, o forse ancora in alto, sul mare del nord.
Devo imparare il polacco, pensavo, impararlo bene, non da straniera. L’unico modo per fare questo è fare il quarto anno qui. I Collegi del Mondo Unito sembrano carini, certo, ma tutto quello che leggo su di loro è troppo bello per essere vero. Ci deve essere un grosso strato di ipocrisia, da qualche parte in profondità, dev’essere così. (E poi non verrei ammessa comunque). No, io devo rimanere concreta, devo essere in Polonia l’anno prossimo per imparare bene il polacco; la Polonia sarà la mia casa.
Mi sentirò a casa, nelle prossime settimane? O il mio cuore, senza che me ne accorgessi, si è trasferito nel frattempo a Duino, a guardare il mare dalla passeggiata Rilke?

#2
Le prossime due settimane saranno importanti. Incideranno fortemente sulla mia posizione rispetto a fare la musicista dopo la scuola. Se la mia nuova insegnante riuscirà a mettermi a posto, inizierò i miei due anni all’accademia musicale di Duino fiduciosa che una possibilità piccola piccola di fare la solista ce l’ho. Una possibilità così piccola che né io né altri l’avevano mai vista prima della mia nuova insegnante qualche mese fa. E se non riuscirò a risolvere i problemi tecnici e i numerosi dolori alla schiena e al braccio destro? Riuscirò a continuare a suonare il violoncello? Non ne sono sicura.
Riuscirò a scegliere composizione al posto di violoncello come attività creativa, l’anno prossimo? Li sceglierò tutti e due?

#3
Tra due mesi sarò in una situazione simile. Saluterò i miei genitori, e soltanto con la valigia e il mio violoncello farò un viaggio di poche ore da sola, al cui termine mi accoglieranno persone amiche per iniziare una fantastica esperienza insieme. Stavolta rivedrò i miei genitori tra una decina di giorni. Tra due mesi, dovrò aspettare molto di più. Li saluterò diversamente da oggi? In che modo salutarsi sarà diverso? Quali pensieri ed emozioni di oggi mi ritorneranno tra due mesi?

N.

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Aventiure vs. Conosciuto

Andrò ad Adriatic, come ho sempre voluto.

Un’altra lunga giornata di attesa, e di Gastone, soprannominato “fata turchina delle borse di studio” dalla chat dei (forse) futuri studenti UWC italiani, nessuna traccia. Sto per andare a letto. Mia mamma sta guardando il telefono.

“Ha scritto Gastone!” esclama.

Corro da lei.

Gastone in quella email chiede quando possiamo sentirci via telefono. Domani mattina o domani pomeriggio, scriviamo. Sarebbe un giorno di scuola, domani, ma non ci penso ad andarci.

Il giorno dopo mi sveglia mia mamma. “Ho telefonato con Gastone. Non hai sentito?” Sono le otto.

Gastone ha proposto per me tanti collegi, e nessuna borsa di studio. Perché nessuna borsa di studio? Il nostro reddito è lungi dall’essere troppo alto.

“Quali collegi ha proposto?” chiedo. Quello che sto chiedendo in realtà è: Ha proposto UWC Adriatic?

Mia mamma inizia a leggere dagli appunti che ha preso su uno dei foglietti per fare le liste della spesa. Dopo i primi quattro nomi, non resisto più.

“C’è anche Adriatic?”

“Sì, c’è anche Adriatic”.

Non mi sento felice o sollevata. Mi sento più forte.

“Senti, Cina e Singapore, se dobbiamo pagarteli noi… Insomma, ovviamente ci metteremo a cercare delle borse di studio, ma comunque, nel caso che non ne trovassimo… Per i soldi che abbiamo messo via finora…”

I miei genitori chiedono di scegliere tra i tre collegi meno cari: UWC Mahindra, UWC Adriatic, UWC Dilijan.

E mi sveglio di colpo. L’India. L’India!

E sì, dai, anche l’Armenia è carina.

Mi prendo tutta questa giornata per decidere. Vado a far colazione al bar con i miei, faccio ricerche su internet, brainstorming, telefono a degli amici.

Ho una delle conversazioni più belle che abbia mai avuto con Marysia, la mia amica in Polonia. Nonostante non ci vediamo di persona da tre anni, in quei quaranta minuti provo un senso di profonda connessione con lei. Quaranta minuti di bici, sole e vigneti.

Mi vedo in città con Allegra; era tempo che non parlavamo davvero. So che per decidere devo anche parlare con lei: perché lei è una delle poche persone che capiscono cosa significa studiare musica per me. Sono disposta a rinunciare allo studio serio della musica per l’India?

Mi è chiaro tra cosa devo scegliere. Tra una versione migliore della mia vita sinora, oppure l’aventiure medievale, lasciarsi dietro tutto e scoprire l’ignoto. Il richiamo dell’aventiure riuscirà a sconfiggere la sicurezza del conosciuto?

Tendo verso Duino. Mi sento in colpa: non ho il coraggio di fare un salto coraggioso?

Scelgo Duino: perché l’esperienza UWC sarà impegnativa e mi cambierà profondamente, e in un periodo così della mia vita ho bisogno di continuare a studiare musica più che mai.

La mattina dopo ci arriva una mail di Gastone. Ho iscritto Nina a UWC Adriatic. Leggo il nome del collegio, e me ne rendo conto: questo è l’unico collegio dove potrei sentirmi a casa. Ho fatto la scelta giusta.

N.

Io e gli Altri

Quello che temo di più della vita nei Collegi è stare in mezzo così tanto tempo a così tante persone. Io adoro stare con altra gente, ma riesco ad essere me stessa e a rilassarmi solo quando sono sola. Tra gli altri io riempio il mio contenitore di materiale, da sola ordino il materiale in scaffali eleganti. Se sto troppo con altre persone sono piena di materiale in disordine, sono confusa e agitata. Se sto troppo da sola non ho nulla tra le mani, mi sento triste e vuota.

Dovrò imparare a capire quando è ora di passare del tempo da sola, e capire quali persone voglio davvero avere intorno. Passo del tempo insieme a YZ perché mi piace la compagnia, o perché ho paura che gli altri si dimentichino della mia esistenza? (Ah, questa costante e irrazionale paura di venire dimenticata, abbandonata… Insieme alla convinzione che nessuno abbia piacere di avermi intorno, è la mia fedele compagna degli ultimi due anni.)

Dovrò imparare a riconoscere i miei bisogni e le mie voglie, e soprattutto, a non vergognarmi nell’agire di conseguenza. Smetterò di paragonare la mia vita e le mie azioni a quelle degli altri, di confrontare la (da me presunta) felicità degli altri alla mia. Mi lascerò vivere la mia vita, e solo il fatto che è diversa da quella delle persone che mi circondano non sarà più un motivo per dire che è sbagliata. Sarò un po’ più gentile con me stessa.

N.

Passato, Presente e Futuro

Non avevo mai pensato ai Collegi del Mondo Unito come a dei collegi. Posti caotici, con poca privacy, e il bagno in comune. Mi sto chiedendo quanto mi metterà in difficoltà questo aspetto della vita nei Collegi, e se non è più quello che lascio rispetto a quello che guadagnerò.

Cosa lascerò? Mia mamma, i miei genitori. La mia stanza, che è stata il mio rifugio negli ultimi anni. Alcuni luoghi della mia città, a cui collego molti ricordi (non avrei mai pensato di averne così tanti).

L’aspetto dei ricordi mi colpisce molto. Mi sto rendendo conto di quante cose ho fatto, a quante cose ho pensato e quanto sono cambiata in questi sedici anni. Mi sto rendendo conto di quanto ho vissuto. Adesso mi chiedo se non avrei potuto vivere meglio.

Fin dalla prima elementare ho sempre e solo voluto andare via di qui, non ho mai voluto scoprire se la mia città avesse altro da offrire oltre a quello che conoscevo già. Non ho mai voluto scavare sotto la superficie, per paura di rimanerci intrappolata.

So che se avessi saputo che me ne sarei andata, mi sarei comportata diversamente. Avrei osato di più con le altre persone. Avrei preso molte cose più alla leggera. Avrei colto l’attimo, sapendo che la mia vita non sarebbe sempre stata così. Aspettando con impazienza il futuro (e temendo che non arrivasse), non mi sono goduta il buono del presente.

Cosa ho imparato per il futuro? Ho imparato che anche in una situazione spiacevole, se si scava a fondo, c’è qualcosa che ha una sua bellezza unica. Ho imparato che le cose cambiano sempre, che uno si dia tanto da fare o meno, e che a volte lasciarsi sorprendere dai cambiamenti può essere una buona cosa. Basta essere pronti a cogliere le occasioni. Ma mai disdegnare totalmente il presente solo perché si sta aspettando un futuro migliore. Quel futuro (o un altro futuro) verrà – ma arriverà attraverso il presente.

N.

Fuoco e Ghiaccio

Mi hanno preso. Quando me lo hanno detto? Un mese fa? Tre settimane, o giù di lì. E ancora non ci riesco a credere davvero.

I primi giorni dopo la notizia mi sorprendevo a pensare cose come: se mi prendessero, farei… oppure: visto non mi prenderanno andrò in Polonia, e come prima cosa…

No, genio, no. Ti hanno preso. Non ti sto prendendo in giro.

Cioè, in verità sì.

Il fatto è che, ufficialmente, non sono ancora stata ammessa: come mi ha rivelato la tanto attesa email il 21 febbraio, risulto ammissibile e sono tra i primi quaranta (quest’anno sono solo questi i posti disponibili agli italiani). Ma insomma, questo vuol dire che mi prenderanno, no?

Mio papà continua a ripetere: “al 99% ti hanno presa, ma non è sicuro. Non dire agli altri che ti hanno presa. Se poi non ti prendono, come lo spiegherai? Per evitare equivoci, è corretto invece dire come stanno esattamente le cose, e cioè che…”.

Uffa, papà, lo so che per adesso sono semplicemente “ammissibile”… Ma ho bisogno di esagerare un po’ per rendermi conto di ciò che è successo. Se dico: “ammissibile”, dentro di me c’è solo il gelo dell’attesa, il fedele compagno che durante gli ultimi mesi non mi ha mai lasciato. Se però dico “presa”, sotto la lastra di ghiaccio un fuocherello inizia ad agitarsi…

Gli eventi del mondo non si mettono in fila come gli inglesi. Si accalcano caotici come gli italiani.

– Carlo Rovelli

N.

Colori, Tedesco, UWC e Albus Silente

Ho fatto un sogno stanotte – il primo sogno, che io abbia memoria, in tedesco.

Era un sogno confuso – paesaggi fantastici, trame diverse, una scena in prima persona e una in terza, e sempre questo dover scappare.

In una scena mi trovavo in un piccolo stanzino senza finestre, immerso in una calda luce artificiale arancione. C’era un tavolo di legno, anche le pareti erano di legno, e so che era pieno di arredamento: mensole, poltrone, sedie. Ero al colloquio individuale per l’ammissione ai Collegi del Mondo Unito. Invece della commissione, però, a farmi domande c’era Albus Silente, con la faccia di Jude Law (ho visto Animali Fantastici: I Crimini di Grindelwald due sere fa…). Silente, in piedi davanti a me, prende da una mensola una lanterna. A pensarci adesso, era un misto tra una lanterna e un lampione: di metallo e vetro opaco, la forma di un cono a testa in giù ma senza punta, e sopra un elegante tettuccio di metallo. Una ragnatela di metallo e tra i buchi parallelepipedi di vetro. Il metallo era tra il grigio e l’argento, e così anche qualche vetro. La maggior parte dei vetri era rosso scarlatto.

Welche Farben sind das? mi chiede Silente. Che colori sono?

Hier? Qui? Cioè, sulla lanterna?

Ja. Sì.

Vedo solo rosso e grigio. Guardo ancora attentamente la lanterna per controllare che qualcosa non mi sia sfuggito, ma non vedo altri colori.

Rot und grau. Rosso e grigio.

Silente mi chiede: E quale ti piace di più? Und welche Farbe magst du lieber?

Rot! Rosso!, senza pensarci, e mi pervade una sensazione di trionfo.

Warum? Perché?

Mi agito, ma allo stesso tempo sono euforica. No, dai, non volevo emozionarmi così, perché adesso Silente vedrà subito che sono emozionata e io questo non lo volevo. Ma ecco, questa è una domanda profonda. E io avrei bisogno di più tempo per pensarci, perché durante questo colloquio non riesco a riflettere e rischio di rispondere cose non accurate o banali. Ma questo lo sapevo, e infatti mi sono creata una strategia per rispondere anche a domande di questo tipo: prendermi tempo, ma non troppo, e dire onestamente quello che mi passa per la testa.

Col fiato corto butto fuori queste parole: rot ist stark und…il rosso è forte e…

E Silente sbotta: Das genügt. Basta così.

hoffnungsvoll. …pieno di speranza.

La scena si dissolve, e, mentre davanti a me compare un paesaggio simile a una foresta pluviale, rifletto su cosa potrebbe averlo irritato.

Poi, più tardi nel sogno, mi ritrovo nella stanzetta senza finestre. È una variazione della scena precedente.

Silente mi ha chiesto quali colori ci sono. Rosso e grigio, gli ho detto.

Mi dice no. I colori sono rosso, grigio, e poi dice una parola che ora non riesco a ricordare. Dubito che esista davvero. Quattro o cinque lettere, inizia con la b. Appena sveglia continuavo a pensare alla parola “alabastro”, che, devo dire, non sono del tutto sicura cosa sia esattamente. Però è una parola italiana, e quindi è piuttosto improbabile che c’entri qualcosa.

Anche nel sogno il nome del terzo colore mi lascia perplessa: non sono sicura di quale colore si tratti. Sono confusa e non dico niente. Silente, alias Jude Law, sorride come ha sorriso nel trailer di Animali Fantastici.

E quale ti piace di più?, chiede.

Rosso, dico, ma poco convinta.

Nicht b****?Non il b****?

Adesso vedo la parte dietro della lanterna. Non ci sono i vetri, ma solo una superficie argentea, e in mezzo una goccia con tanti fronzoli di colore marrone-oro. È questo il famoso b****.

Il marrone è il mio colore preferito. Improvvisamente so che anche Silente lo sa. Oh, no…

Ah, das ist das b****! esclamo. Ah, è questo il b****! Mi sento in colpa. Avrei dovuto chiedere prima quale colore fosse esattamente il b****. Ich dachte, das wäre mehr… Pensavo fosse un qualcosa di più…

Dalla parola, b****, ovvero i colori delle singole lettere – io associo un colore ad ogni lettera – mi ero immaginata un qualcosa di più… pallido. Nel senso di neutrale. Come una parola per descrivere tutti i colori.

(Dato che mi è rimasto in mente questo colore, può essere che nella misteriosa parola ci fossero delle r e delle a, oppure delle e. Forse era una storpiatura di braun, marrone?)

allgemein, termino la frase. Pensavo fosse un qualcosa di più… generale. Generale?

Allgemein, ripete Silente. Anche lui non sembra del tutto convinto. Ma poi anche questa scena si è dissolta.

Del sogno ricordo ancora un momento dopo la prima scena che qui ho raccontato. Pagaiavo in una canoa, su un fiume in una foresta pluviale. Riflettevo sulla risposta che avevo dato a Silente, sul perché mi piaceva di più il rosso: perché è forte e pieno di speranza. Improvvisamente mi accorsi: avevo pensato al rosso come colore in assoluto, non come il colore che c’era sui vetri della lanterna. E la lanterna era un oggetto tridimensionale, un oggetto che poteva contenere qualcosa. Adesso non so spiegare perché, ma sul momento mi sembrò di aver scorto un dettaglio importantissimo, e mi dispiacque immensamente di non averci pensato prima.

P.S. Ho appena controllato cosa sia “alabastro”, la parola che avevo in testa appena sveglia. E, attenzione, attenzione, è proprio di questo colore che, prima che Silente me lo mostrasse, avevo pensato fosse il b****, il “pallido neutrale”. Sono confusa.

Ma, Uffi, Insomma e Diamine

Ma, insomma… Se mi prendono a UWC o no cambierà il resto della mia vita?

Beh… No. Direi di no. Con o senza quei due anni in collegio sarò sempre la stessa persona – con esperienze diverse, certo, ma valori e obiettivi non cambieranno. Che io vada a UWC o no, nella mia vita cercherò comunque le stesse cose.
Ecco, UWC sarebbe però un ottimo trampolino da lancio. Scuola di qualità, inglese come lingua d’insegnamento, studenti da tutto il mondo, storia della politica come materia, attenzione agli argomenti d’attualità, importanza del rispetto per l’opinione e l’esperienza e la cultura altrui…

No, davvero: cosa mi verrà a mancare se non frequenterò UWC?

Una visione del mondo d’insieme. O almeno, una visione del mondo d’insieme prima dei diciott’anni. Poi, contatti con persone sparse un po’ per tutto il mondo. Partecipare al movimento…

No: per partecipare al movimento UWC non serve frequentare uno dei collegi. Se partecipassi al movimento solo se venissi ammessa alla scuola, allora tanto vale ritirare la candidatura: non è coerente.

Ma la visione d’insieme rimane, e c’è anche l’esperienza di convivenza con persone così diverse. Con così tante persone così diverse. E poi, l’importanza che viene data all’attività sportiva mi aiuterebbe: farei sport comunque, ma con un sistema mi riuscirebbe meglio. E poi, sarei senza i miei genitori…

Beh, quando andrò all’università non ci saranno mica. Quindi, perché questa fretta?

Perché UWC è un’occasione imperdibile! Argh, se solo riuscissi a dire perché…

L’inglese!

Sì, ma quello lo puoi studiare anche dopo.

Diamine, è un’esperienza unica! Così tante persone da così tanti posti diversi, con lo spirito di volersi impegnare attivamente per cambiare il mondo…

Ce l’ho! Lo spirito di cambiare il mondo! Perché da soli si fa qualcosa, ma collaborando si fa meglio. E sì, potrò collaborare con tante persone nel resto della mia vita, ma non riesco ad immaginare un ambiente orientato equivalentemente al dialogo.

(Equivalentemente, argh! Una volta scrivevo in tedesco traducendo dall’italiano, ora è il contrario… E nonostante io m’impegni, non riesco ad evitarlo…)

Dunque: visione del mondo d’insieme, tante persone diverse, e ambiente orientato al dialogo e alla collaborazione… E l’attività sportiva, naturalmente.

E gli amici. Ma posso dirlo alla commissione? Perché vorrei farmi degli amici? Tipo, bagno a centrifuga nell’autocommiserazione?

Eddai… No, non in quel senso… Ma persone che hanno scelto consapevolmente quella scuola, quella strada. Persone che vorrei conoscere. Perché riesco ad immaginarmi di stare molto bene in un simile ambiente.

Già, un ambiente di collaborazione e dialogo… L’hai già detto…

E se vuoi collaborare con le persone del movimento UWC, puoi anche farlo senza andare in quella scuola…

Uffi, e se io semplicemente volessi andare in quella scuola? E basta?

Ma, insomma… Se mi prendono a UWC o no cambierà il resto della mia vita?

Diciamo che verrebbe a mancare un grosso trampolino di lancio.

E gli amici? Cioè le persone?

Sì, posso collaborare con queste persone anche dopo. Ma a UWC sarebbero gli ultimi due anni di scuola (!), un periodo non qualsiasi, un periodo di crescita, di… presa di responsabilità per diventare adulti. Ecco: crescita insieme.

Povero italiano mio, abbiamo ancora una lunga strada da percorrere.

Una volta, il verbo inglese “to let” significava impedire.

N.

Ordunque…

In prima media ci diedero il seguente compito per casa: descrivi una scuola immaginaria che vorresti frequentare (min. una pagina, max. due pagine). Edificio, materie, compiti per casa, orario scolastico, mensa ecc. All’ora di italiano successiva, alcuni – tra cui io – lessero ad alta voce il proprio tema. Dopo ogni tema, la professoressa e i compagni di classe assegnavano un voto alla scuola: quanto mi piacerebbe frequentarla (o insegnarci)?

La professoressa – povera professoressa, con tutto il trucco spalmato in faccia non si capiva mai che espressione avesse – diede alla mia scuola un 10. I miei compagni di classe, invece, (parlando in un italiano maldestro, dato che i loro genitori, orgogliosi sudtirolesi, non vedevano alcuna ragione per insegnare ai loro figli l’italiano) votarono nel seguente modo: cinque, quattro, quattro, cinque, quattro… no, sei: perché ha pensato anche alle piante.

Chissà che faccia avrei fatto, se quel giorno qualcuno mi avesse detto che adesso – dopo cinque anni e un centinaio di piatti di canederli – io so che una scuola come quella di quel tema esiste davvero.

 

Mi chiamo Nina – o anche Nick. Ho avuto un piccolo litigio col mio nome di nascita, un paio d’anni fa; così, ho provato a farmi chiamare dai miei amici e compagni di classe con un altro nome, ma non ha davvero funzionato. Da lì, non mi identifico più in un nome, e sto bene così.

Vivo in Alto Adige, la provincia italiana dove si mangiano i canederli e lo speck e le persone di madrelingua tedesca sono la maggioranza. Il motivo per cui ho iniziato questo blog è legato strettamente a questo: nonostante io parli italiano a casa, dalle medie in poi ho frequentato la scuola in lingua tedesca, e, di conseguenza, negli ultimi cinque anni ho avuto di italiano solo un paio d’ore alla settimana – ed ehi, iniziando dagli articoli, in cinque anni siamo arrivati addirittura al congiuntivo! È proprio così che mi immagino di imparare la lingua dello stato in cui vivo!

Il mio umorismo sarà anche discutibile, ma questo resta: il mio italiano “scolastico” o elegante o forse anche il mio italiano in generale è terribilmente fuori esercizio. Ma tra meno di un mese ho un esame d’ammissione in italiano; un esame d’ammissione che voglio superare a tutti i costi: il test d’ingresso per la scuola dei miei sogni, i Collegi del Mondo Unito.

E quindi, devo fare un po’ di esercizio in italiano. E quindi, ho iniziato questo blog.

 

Se qualcuno vi sta fissando insistentemente guardategli le scarpe. Funzionerà.

N.