Karaoke, Assemblea, e una mezz'ora su Fore balcony

Sono decisa a vedere tutto questo come parte dell’esperienza UWC.

Mi ricordo l’ultima domenica “normale”. Ero decisa a studiare. L’ho passata principalmente nella sala comune di OO con T. e L., tutte e tre chinate sui libri, e chiacchierando ogni tanto. Subito dopo pranzo io e T. ancora non avevamo le energie per rimetterci al lavoro, quindi, insieme a M., abbiamo passato una buona mezz’ora a cantare canzoni pop mettendo su Youtube la versione karaoke. C’era qualcosa di definitivo, in quella mezz’ora. Abbiamo cantato a squarciagola, come se ci fosse un’urgenza di liberarci di qualcosa dentro, di doverlo tirare fuori, e subito. Come se avessimo intuito che quella era una fine. Take me to church, Skyfall, Dance Monkey. O forse eravamo tutte e tre al massimo della nostra tolleranza dello stress – da qui la fine – e volevamo liberarcene, anche solo per poco – da qui l’urgenza di tirare fuori qualcosa da dentro.

Il pomeriggio lo abbiamo passato ad aspettare l’assemblea d’urgenza delle 18. Ne ho parlato con Feli sulla strada tra OO e l’aula magna: quella è stata probabilmente l’assemblea più attesa di sempre.

Due settimane di chiusura. Project week cancellata. 24 ore per evacuare. Questi i punti principali del discorso di Will, il nostro rettore. Al termine una buona fetta degli studenti era in lacrime. Ho pensato di essere molto fortunata a frequentare una scuola che, quando chiude per due settimane, gli studenti piangono.

Ho accolto la notizia quasi con sollievo. Due settimane di quasi-pausa a casa mi avrebbero fatto bene, lo stress era diventato tanto. Feli, la mia compagna di stanza sarebbe venuta con me! Sarebbe quindi stata un’occasione per farle vedere la mia casa e la mia città, farle conoscere i miei, e soprattutto per conoscerci meglio. Sarebbero state due settimane molto belle. Peccato per la Project Week però… Doveva tenersi nella città di una mia buona amica e dovevamo anche dormire a casa sua; non avevo visto l’ora di conoscerla meglio attraverso l’ambiente in cui è cresciuta.

Le successive 24 ore mi sono state una lezione importante. Vedere chi mi è venuto naturale cercare mi ha fatto capire chi sono le persone alle quali tengo di più. Interessante notare che non sempre coincidevano con le persone con le quali passo maggiormente il tempo.

Mi ricorderò per molto tempo la mezz’ora tra le 19:30 e le 20 del lunedì sera. Una seconda che avevo appena iniziato a conoscere, incontrata per caso sul balcone di Fore, mi ha detto: alle 20 ho il bus, quindi non ho molto tempo, ascolta. E in mezz’ora mi ha raccontato sé e la sua vita sotto un preciso punto di vista, un aspetto di cui io e lei avevamo discusso la sera prima. Mi ha colpito l’urgenza – anche qui – che percepivo da parte sua. La solennità. Prima di partire per l’incertezza e lo sconosciuto che ci aspetta tutti, devo dirti questo, per me è importante che tu lo sappia. Sono felice di aver provato questa sensazione: di sentirmi così vicina, così simile ad un altro essere umano. Non so per lei quella mezz’ora che significato abbia avuto. Ma per me ha significato molto.

Mi mancheranno molto le domeniche di studio a Old Offices. Io, T., e forse qualcun altro della popolazione di OO. Tutte insieme nella sala comune, a studiare, tenersi compagnia, chiacchierare e occasionalmente cantare. E ovviamente andare insieme a pranzo a mangiare le patatine della domenica. Proprio come una piccola famiglia. Settimana scorsa abbiamo fatto una videochiamata, noi ragazze di OO, due ore passate a non dire niente di preciso e a ridere molto. Quanto voglio loro bene.

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What If, Domino e Covid19

Il collegio è chiuso per il resto dell’anno accademico. Questa mail ha messo fine all’incertezza e mi ha portato sollievo. Ormai, mi aspettavo questo finale.

Penso ai miei secondi anno. Quelli che volevo conoscere meglio e quelli che avevo solo iniziato a conoscere. Pensare a loro fa male, il male del “what if”. Mi vengono in mente ricordi di loro che non sapevo nemmeno di avere, piccoli momenti sparsi qua e là.

Mi rendo conto di quanto l’esperienza di Duino mi abbia arricchito. Sono cresciuta, sono maturata, sono più simile alla persona che voglio essere / che sento di essere dentro di quanto lo sia mai stata. A Duino ho sperimentato come sia essere liberi di essere, liberi di esprimersi, liberi di vivere. Duino ha sbloccato dentro di me qualcosa, ha messo in moto un meccanismo stile domino che anche adesso, lontana da lì, non si è fermato. E nonostante la tristezza per i tre mesi che ci sono stati rubati, sono ancora più felice per i cinque che abbiamo avuto.

Come mi ha detto una mia cara omonima amica, la nostra esperienza UWC è unica ed è inseparabile dal Covid19. Ha un lato negativo unico che porta con sé un lato positivo unico (di cui presto ci renderemo conto).

Mensasofía

Un pensiero sulla mensa come rituale, che penso non venga tenuta abbastanza in considerazione.

Per chi non era abituato a mangiare in mensa, la cosa che colpisce di più, all’inizio, è mangiare allo stesso tavolo con tante persone, che di solito si conoscono poco o per niente. Questo all’inizio mi metteva piuttosto in soggezione. I tempi dei pasti in un’atmosfera casalinga e relativamente tranquilla sono finiti. Benvenuti invece ai pasti frettolosi, su scomode sedie di plastica, in mezzo a visi sconosciuti in un’atmosfera caotica. Ma questo non è l’unico modo di vedere le cose. Lasciate che vi illustri i quattro tipi di approccio ai pasti che io uso solitamente, e che ogni giorno imparo ad  apprezzare di più.

1) da soli in compagnia: quando si è di malumore, stanchi, o molto presi dai propri pensieri, senza energie per chiacchierare ma comunque vogliosi di compagnia, la mensa offre la possibilità di mangiare ad un tavolo con gli altri, ma senza parlare. Nessuno si stupirà se qualcuno quella volta non ha voglia di chiacchierare. In questo modo si può consumare il proprio pasto in silenzio, ma ascoltando le chiacchiere degli altri, godendo della loro compagnia e dei loro sorrisi. Ottimo anche per chi è di umore melanconico e vuole tirarsi su il morale.

2) da soli da soli: opzione che dipende dalle condizioni climatiche: si tratta infatti di mangiare da soli sul balcone di Fore, con vista castello e mare, o sulla scala esterna, con vista solo mare. Se fa troppo freddo potrebbe essere un’esperienza estremamente spiacevole, e se fa un po’ troppo caldo tanti altri avranno la stessa idea, e addio stare da soli. Un ulteriore vantaggio è che il mare si adatta particolarmente all’umore di solito meditabondo di chi cerca di avere questo tipo di pasto. Un’idea è di accompagnare quest’esperienza ascoltando musica o podcast.

3) buon amico parliamo: per questo tipo di pasto, i requisiti sono due: avere voglia di una conversazione profonda, e avere con sé a mensa un amico che ha pure voglia di una conversazione profonda. Allora si scappa lontani dagli altri, in un nascondiglio dove si possa conversare tranquillamente, che di solito è sul balcone, sulla scala esterna, o anche in fondo a mensa extension o su in music labs. Quando si ha molto da fare, questo tipo di pasto è anche un buon modo – se non l’unico – per non perdere di vista i propri amici. Un’alternativa da realizzare con le stesse premesse è un calmo pasto senza troppe chiacchiere ascoltando insieme musica, un’altra bellissima esperienza. Funziona, ovviamente, anche per gruppi un poco più numerosi.

4) conosciamo nuova gente: solo per gli avventurieri più temerari: sedersi ad un tavolo con gente che non si conosce bene, e… Buttarsi. Nella mia esperienza, a volte ne è venuto fuori solo un po’ di small-talk imbarazzato, morto dopo poche frasi, altre delle piacevoli e interessantissime conversazioni che sicuramente mi hanno arricchito, e un paio di volte conversazioni culminate nella decisione di bere un tè o fare una passeggiata insieme, nei giorni seguenti, dalle quali ho guadagnato delle bellissime amicizie. Alcune volte, in questo modo, sono nati addirittura nuovi progetti o collaborazioni. Consiglio questo tipo di pasto soprattutto all’inizio dell’anno, visto che è anche un ottimo modo per parlare con persone che intrigano ma che altrimenti non si saprebbe come attaccarci bottone.

Non è ai livelli della lanterninosofia, ma penso di comunque meritarmi il titolo.

N.

Casa, prima e dopo

Finito il primo semestre, e tornando a casa posso confermare: UWC mi ha cambiata.
Nella mia città, nella mia casa, tutto è rimasto uguale. Ma queste non sono la città e la casa che ho lasciato. Io vedo cose diverse, penso cose diverse, faccio cose diverse, mi comporto in modo diverso. Casa non è più una trappola opprimente senza via d’uscita. È un pezzo di mondo, con una società tutta sua, una cultura tutta sua, principi e valori tutti suoi; il pezzo di mondo che mi ha cresciuto e che ha avuto la maggiore influenza su di me. Casa è anche un posto accogliente, prezioso, un posto dove ho tanta storia, dove ho quasi tutti i miei libri, un posto dove ho una camera tutta per me nella quale posso rinchiudermi e per ore suonare, leggere, scrivere, e fuori il silenzio. Casa è un posto immerso in una natura pazzesca; dove c’è un ponte pedonale con una tettoia di legno che da su un fiume che si perde in lontananza, dove dalla finestra del soggiorno vedo tramonti che tingono di rosa acceso le montagne (ah, care Dolomiti, come voi nessuno), dove c’è una passeggiata che si snoda a serpentina verso l’alto su una delle montagne che circondano la città, e a un certo punto c’è una panchina dove io e una mia amica ci siamo sedute e, guardando dall’alto la città che si addormentava, abbiamo parlato per ore. Casa è dove posso stare con le due persone più importanti della mia vita: i miei genitori.
Non so perché, ma avevo sempre pensato di non essere vissuta propriamente in una cultura, di non essere stata esposta ad una società… Sempre pensato che al di fuori dei miei genitori, non ci fosse stato nessuno e nulla che avesse influenzato i miei valori e la mia visione del mondo. Che sarei venuta al collegio con un bagaglio socioculturale “neutrale”. Oh, non avrei potuto sbagliarmi di più! Dopo un semestre al collegio di chiacchiere con gente da tutto il mondo, mi chiedo quanto dei miei valori e della mia visione del mondo sia solo mio, e non assorbito dalle persone che mi circondavano a casa – se c’è qualcosa di solo mio.
Ho notato una grande differenza tra i miei coetanei “open-minded” a casa e i miei coetanei al collegio. Penso di aver afferrato quale: l’open-mindedness a casa consiste in una serie di principi: male patriarchia, male islamofobia, male omofobia, male razzismo, bene apertura mentale, bene aiutare immigrati. Qui al collegio consiste nell’iniziare una conversazione con un’altra persona ed essere pronto a mettere in dubbio tutto quello in cui credi e forse alla fine dover accettare che, pure se non hai torto, anche l’altra persona ha ragione.

Le discussioni filosofiche riprenderanno mercoledì, e stavolta sono una degli organizzatori.

Saluti,

N.

Un giorno come altri

La bellissima giornata di ieri.


Prima del programma musicale, da sola sulla terrazza di OO, bevendo tisana e guardando la pioggia. Uno dei momenti più belli che abbia avuto sinora.


Programma musicale, con molta armonia, che adoro, e poca storia della musica stavolta. Alla pausa, provato caffè “marocchino” per la prima volta – e ci stava. Anche questa volta, le Nine hanno continuato con la tradizione di prendere la stessa bevanda. Avuto la prima conversazione vera con S. dopo tanto tempo.


Poi appuntamento con Ma. per organizzare il nostro long weekend – ma solo dopo due episodi di Avatar.

Tornata a OO, dove ho iniziato a fare i compiti di filosofia – ma poi è arrivata Yo., e chiacchierato con lei, Mu. e Ya.. Mi sono resa conto di quanto mi mancheranno durante il long weekend… Loro andate a cena, io, coraggiosa, ho continuato con i compiti di filosofia. Poi andata a cena anch’io e seduto al tavolo con loro. Breve conversazione scherzosa con A. – sono così felice che adesso le nostre conversazioni sanno essere anche non superficiali, è una persona particolare che sono felice di conoscere.

Tornata a OO, dove nella sala comune io e S. ci siamo buttate sui compiti. Non avrei mai pensato che fare i compiti con qualcuno vicino potesse essere così motivante. Nel mezzo qualche conversazione sulla natura umana e sulla natura dell’amicizia.

Alle 22:30 sono corsa a pala per dare a L. il suo regalo di compleanno. L’ho trovata commossa dalla sua festa a sorpresa. Prima di tornare, sono passata a dare la buonanotte alla persona meravigliosa di nome H.. Tornata a OO con A., io cantando “Last Christmas” e lui “Rolling in the Deep”. Duetto improbabile, ma entrambi eravamo troppo stanchi per farci caso.

Aiutato L. con la sua EE – non l’avevo mai vista così agitata prima, visto che solitamente è la calma in persona. L. ci teneva ad avere il parere di G. prima di mandarla, ma G. non rispondeva ai miei messaggi, quindi le ho telefonato. Ha richiamato dopo un po’, ed è riuscita a calmare un pochino L.. Ho suggerito un titolo alternativo che ha usato. Quando l’ha finalmente mandata, era quasi mezzanotte. Quando G. ha letto i messaggi, dopo che tutto era finito, ha risposto con “momenti iconici” – quanto ha ragione! L. è andata a dormire, e a me non è rimasto altro che finire i famosi compiti di filosofia.

N.

Momenti

Questo posto è fatto di momenti preziosi.


H. che, durante l’ora di inglese, scrive “ciao, bellissima” in arabo sui miei appunti.


Facendo i compiti in biblioteca, R. che prende il suo righello pieghevole, lo curva e annuncia: “I’m straight as my ruler”.


La sera tardi, stare da sola distesa sul molo a guardare le stelle.


Accompagnare col violoncello il coro durante il primo concerto degli studenti del Collegio.


G. che, di ritorno da casa, mi porta un pezzo di torta di sua nonna.


Il sabato sera con le mie compagne di stanza, patatine e biscotti davanti a Netflix per un paio d’ore.


La sera nell’aula di musica, F. suona la chitarra e noi cantiamo.


Ascoltare musica con M. guardando i tetti di Duino.


L. che la sera viene in camera mia per leggermi una poesia.


Una discussione con molto coinvolgimento a Global Politics, dopo la quale ho la sensazione di aver davvero imparato qualcosa.


La sera di una giornata intensa e emozionale, vado a letto e penso: “sono una persona migliore di quella che ero stamattina”.

Una ragazza qui, una settimana fa, ha deciso di togliersi l’hijab. Non è stata una decisione facile. I suoi genitori non lo sanno. Da quando l’ha fatto la vedo più serena, più in pace con sé stessa.

N.

Manifestazione, Compleanni, Philosophy Club e Organizzazione

E adesso è passato più di un mese, e forse me ne sto rendendo conto. Non mi sento (ancora?) a casa: mi sento come un’ospite moltissimo benvenuta in un posto che conosco bene. Mi sto affezionando a certi dettagli: mangiare merendine al cioccolato in camera di M., T. che canta quando si fa la doccia (e da camera mia sento tutto), cenare a porto guardando il tramonto, cantare di notte su fore balcony guardando il castello e ascoltando il mare, le passeggiate notturne per le stradine di Duino… Ma sono tutte cose ancora nuove, che non ho vissuto a fondo – perché è passato solo poco più di un mese.

Venerdì in cento del collegio siamo andati allo sciopero per il clima a Trieste. La sera prima ci eravamo trovati in fore dayroom e avevamo fatto i nostri poster per la manifestazione, con pennarelli e colori acrilici, usando cartone dismesso dal Conad qui vicino. C’erano gli slogan più classici, come “act now or swim later”, “as the oceans, we rise”, “the only thing hotter than me is this planet” (love you, Marta); ingegnose variazioni sul tema, come “there is no planet B! where Palestine can be free!”; e vere e proprie perle: “don’t be a fossil fool”, “error 404: future not found”, e “ma che cazzo”. Tutti in un solo bus, o anche in due, non ci saremmo stati, quindi abbiamo deciso di distribuirci su più corse. La manifestazione iniziava alle 9, con M. ho preso il bus delle 7:02 e fatto poi colazione in un bar a Trieste. Il navigatore mi diceva di essere in un paesino in Austria e per arrivare a piazza Goldoni mi dava un percorso a piedi di cinque giorni e mezzo, ho quindi trovato la strada andando a memoria e chiedendo qualche indicazione ai passanti. Non avrei mai pensato di essere in grado di muovermi con abbastanza sicurezza in una città nella quale ci ero stata soltanto una volta prima. Ma ormai mi sto quasi abituando: a UWC si fanno esperienze mai fatte prima, e si scopre che, proprio come ha detto Kurt Hahn, there is more in you than you think.

Questa settimana ci sono stati i compleanni di tre persone con le quali ho abbastanza legato. I festeggiamenti per il compleanno a UWC sono i festeggiamenti più belli che io abbia mai visto.

Il primo compleanno è stato lunedì. Domenica pomeriggio abbiamo fatto pancakes nella cucina di una residence tutor. Lunedì mattina alle 7 abbiamo svegliato la festeggiata cantando tanti auguri – io ho pizzicato la melodia sul violoncello -, poi siamo andati in mensa e mangiato i nostri pancakes con miele e la macedonia che avevamo tagliato poco prima.

Il secondo è stato giovedì. Cena a sorpresa per la festeggiata a porto con macedonia e pizza al taglio, durante l’orario del tramonto. Era bel tempo, ci siamo goduti ogni sfumatura dell’orizzonte e siamo rimasti lì a chiacchierare fino al buio.

Il terzo sabato. Io e le sue compagne di stanza saremmo andate alla gita a Venezia, la festeggiata no. Io le avevo comprato un set di quadernini, al quale ho aggiunto una breve lettera, le sue compagne di stanza avevano preparato diciassette bigliettini piegati a forma di cuore: seventeen reasons why we love you. Hanno sistemato tutto sulla sua scrivania prima di partire per Venezia alle 6:30, così che si è svegliata più tardi con questa sorpresa. Inoltre, la sera prima c’era stata per lei una festa a sorpresa nella spiaggia di Cernizza qui vicino.

Ieri sera c’è stato un altro open mic: ci riuniamo in fore dayroom, e chi vuole canta, suona, recita, balla. Esperienza commovente come l’ultima volta. Ieri però c’era molto meno gente, l’atmosfera era più intima, e abbiamo concluso cantando tutti insieme riptide. Non ho ancora capito come mai questa canzone sia così popolare al collegio, seconda solo a bella ciao.

Un evento che mi piace molto è il philosophy club: riunioni più o meno regolari (una volta al mese?) dopo cena in fore dayroom per discutere di un tema filosofico. La prima volta il tema è stato: is priviledge given or earned? , la seconda: has nature an instrinsic value? Should we protect it because it has a value within itself, or because we rely on it, it is valuable to us? Lucette, coperta e tè; alcuni dei miei momenti preferiti sinora al collegio.

I nostri secondi sono piuttosto stressati: sono i giorni in cui devono completare la loro extended essay. Non vedo l’ora che questo periodo sia finito, così da poterci passare più tempo insieme e conoscerli meglio. Noi primi stiamo organizzando l’EE show, una specie di spettacolo dedicato a loro che sarà in uno dei giorni successivi al completamento dell’EE. Stiamo avendo non poche difficoltà con l’organizzazione: ci sono molti disaccordi su come dovremmo eleggere la commissione per coordinare il tutto. D’altronde, per molti – tra cui me – è la prima volta ad organizzare un evento senza alcun aiuto, anche minimo, di adulti.

Un caro saluto,

N.

17.

17 giorni, e stamattina rimango in residenza perché ho la sinusite. A quanto pare, 17 porta davvero sfortuna.

Queste prime due settimane hanno deluso alcune aspettative, ma per la maggior parte sono andate molto oltre – in senso positivissimo – a qualsiasi cosa avessi immaginato.

(Ah, se Viviana – la nostra cara insegnante di italiano – leggesse mai queste righe, si metterebbe le mani nei capelli).

La mia residenza è Old Offices, una casetta adorabile di due piani più piano terra. Al piano terra ci sono sette ragazzi, al primo sette ragazze, e al secondo c’è l’appartamento di Pablo, il nostro residence tutor, insegnante di spagnolo A e world literature, nonché scrittore. Se abiti a Old Offices, ti capita di frequente di sostenere la seguente conversazione:
“So, in which residence are you in?”
“I’m in OO (leggi: oh-oh)”
“Ohh…”
E poi chi ride per primo perde.
Avevo sperato di venire assegnata a Fore, la residenza più grande con vista mozzafiato sul mare e direttamente sopra mensa. Ma adesso penso che OO sia la residenza migliore che mi potesse capitare. Innanzitutto, è in un posto strategico: vicina a mensa e a Fore, vicina allo school building, vicina alla gelateria, relativamente vicina a porto e a Conad. E poi, col fatto che siamo solo in sette, è sempre abbastanza silenzioso, ottimo per studiare – finché Muneba non decide che è ora di fare la discoteca nel dayroom – , e l’atmosfera sa molto di casa.

Ho le migliori compagne di stanza del mondo: Feli e Naya, l’una dal Kenya e l’altra dalle Bahamas, sempre di buonumore e sempre intente a procrastinare lo studio o la stesura dell’EE nei modi più creativi, tra i quali inventare nomi in codice per noi tre.

Una mia compagna di residenza è curda, e mi sta insegnando qualche parola in curdo e qualche in arabo. Ieri ho tirato fuori il mio metodo per imparare arabo che mi ero portata da casa, un libriccino compattissimo che sembra più mattone che libro, e per quaranta minuti è stata con me a sfogliarlo, ad insegnarmi la pronuncia giusta e ad aiutarmi nella lettura. Anche una ragazza siriana e una irachena hanno deciso di adottarmi come studentessa. L’una mi ha raccontato molte storie sulla Siria, ma non la Siria che vediamo al telegiornale: una Siria ricca di arte e cultura, con un passato glorioso, dove persone di fedi più diverse convivevano in pace – fino all’inizio del conflitto. L’altra mi ha introdotto ai diversi dialetti arabi con tutte le loro particolarità, nonché alla musica araba e in dialetto iracheno. Ha messo insieme una playlist che sto ascoltando adesso.

La comunità UWC è un mondo a sé, con i suoi riti, le sue caratteristiche e la sua moda. I primi giorni, ad esempio, mi colpiva la quantità di abbracci che ricevevo – e che mi veniva naturale dispensare. C’è molto contatto fisico, qui. Ma se l’altra persona non è un amico stretto, si chiede sempre: “can I hug you?” o “can I put my hand on your shoulder?” All’inizio queste formule mi sembravano molto rigide e artificiali, ma ora non più.

Un’altra caratteristica è che qui, quando si chiede come va, lo si intende davvero. E se l’altra persona non sta bene lo dice, e spiega perché, e allora si ascolta e cerca di dare un po’ di conforto.

E la moda… La moda è inesistente, perché ognuno si veste a proprio piacimento, sovvertendo come minimo una dozzina di norme sociali ogni giorno. Non tutte le ragazze si depilano. Alcuni ragazzi indossano gonne o si truccano. Alcune persone camminano per le strade di Duino senza scarpe (cosa che ha irritato il nostro nuovo rettore un paio di volte). Molti indossano vestiti tradizionali. E nessuno giudica, live and let live è la filosofia, qui.

Il non giudicare è un’altra cosa che mi ha colpito. Ne ho parlato con la mia compagna di residenza curda qualche tempo fa, ed eravamo della stessa opinione: qui ci si sente veramente liberi, perché puoi essere chi vuoi, e nessuno ti giudicherà, ma anzi, ti supporterà.

Un problema però del vivere così tanto e molto assieme è il gossip. Ogni giorno si specula su chi potrebbe mettersi insieme a chi, chi potrebbe aver baciato chi, chi potrebbe essere etero e chi bi e chi gay. E appena tra due persone succede qualcosa, o si presume sia successo qualcosa, nel giro di poche ore lo sa tutta la scuola.

Nella prima settimana c’è stata una delle esperienze più intense della mia vita: l’open mic. Tutti gli studenti si ritrovano nel dayroom di Fore, e a turno, senza annunciarsi o iscriversi prima, persone si alzano in piedi per suonare, cantare, ballare, recitare una poesia o leggere un racconto. Anch’io ho partecipato, suonando il preludio della prima suite di Bach. Imperfetto, a tratti stonato, ruvido, brusco… Ma sono riuscita a dire qualcosa. E all’open mic si tratta proprio di questo: non essere bravi, ma trasmettere qualcosa agli altri attraverso qualcosa che piace fare.

Erano persone che, davanti a tutti, facevano le persone, in tutta la loro imperfetta umanità. Mi sono commossa molte volte: quando una ragazza ha letto una poesia sull’ansia, quando un’altra ha cantato una canzone che sua sorella aveva scritto per sua madre, quando qualcuno ha iniziato a cantare bella ciao e pian piano molti si sono uniti… Alla fine di questo la metà delle persone – me compresa – era in lacrime. Una celebrazione dell’umanità; ritrovare parti di se stessi in altre persone. Sono seguiti molti abbracci, molte conversazioni toccanti, ma tutto in fretta e furia, perché mancavano solo una decina di minuti al coprifuoco. Non dimenticherò mai come, mentre parlavo ad una ragazza, io in lacrime e lei quasi – una conversazione con molti abbracci – è comparsa Gaia, mia adorata seconda anno, e ha gridato: “Ragazze, sì, l’open mic è toccante e tutto, ma voi non capite” – e qui gesticolava da vera italiana del sud – “c’è il coprifuoco, il coprifuoco! Andatevene nelle vostre residenze, e adesso!” Ho riso. La ragazza con cui stavo parlando allora mi ha accompagnata alla mia residenza.

Un’altra esperienza toccante l’ho avuta esattamente una settimana dopo essere arrivata. Una ragazza dell’est europa mi aveva detto che voleva conoscermi meglio, e invitato a fare una passeggiata assieme il sabato sera, dato che il sabato il coprifuoco è soltanto all’una. Sono andata a prenderla alla sua residenza, e da lì abbiamo camminato fino a porto, dove ci siamo sedute ad osservare l’acqua. Era già buio. Mi ha chiesto: “raccontami la tua storia”.
Io: “beh, cosa vorresti sapere?”
E lei: “tutto”.
E l’ho fatto. Ci ho messo due ore e mezza, ma l’ho fatto. Lei è stata seduta accanto in silenzio, ascoltava, e quando mi commuovevo mi abbracciava e mi diceva qualche parola rassicurante.
Ho sentito dire spessissimo che le amicizie della prima settimana non durano mai. Ma onestamente non riesco ad immaginare di perdere i contatti con lei, dopo quella serata.

Scuola è iniziata da una settimana e mezzo. E cavoli, questa sì che è scuola. Non imparare le informazioni a memoria, ma discussione condotta dall’insegnante, che ci mantiene sulla strada giusta. Ci ho messo un po’ ad entrare nella routine scolastica: l’inizio qui mi sapeva molto da campo estivo – attività varie, compagne di stanza e gente da tutto il mondo – e quindi l’idea di scuola sembrava un elemento estraneo a tutta la situazione. E in effetti ci ho messo un po’ a rendermi conto che quello che facciamo qui è davvero scuola: non sono abituata a divertirmi e a imparare effettivamente cose nuove, a scuola.

Settimana scorsa ho scelto la mia attività sportiva: vela. Ero arrivata qui superconvinta di prendere nuoto… Ma poi sono andata alla taster session per sailing, e mi sono innamorata: il vento in viso e l’acqua sotto le dita. Come servizio per la comunità ho scelto homeless people in Trieste, solo successivamente ho sentito che molti secondi ne parlano in modo non troppo positivo. Vedrò. Come attività creativa sceglierò il Music Programme, e ci aggiungerò lezioni di violoncello e musica da camera, e forse coro. Il Maestro Sacher ha invitato me e altri tre studenti ad unirsi ad un’orchestra semiprofessionale a Trieste che ha fondato lui. Sabato scorso ci sono state le prime prove… Bellissimo. Semplicemente bellissimo.

Sono felice di essere qui. So che qui diventerò la persona che voglio essere / che posso essere. Sono al posto giusto al momento giusto.

N.

Sette giorni.

Sette giorni. Adesso me ne sono resa conto.

Ironicamente, la presa di coscienza è avvenuta durante una conversazione con una mia cara co-anno / amica, scambiandoci insicurezze e aspettative e parlando, appunto, di quanto partire sembrasse così irreale. E proprio a quel punto la partenza imminente è diventata reale.

Mi verrebbe da dire che ho paura. Ma quello che provo non è paura, è un’emozione che non ho mai provato prima, e che non so ben definire. È un’allerta, una messa in guardia, un alzare le proprie difese, ma senza l’impulso di scappare. Anzi, provo proprio il contrario. Forse potrei chiamarlo richiamo dell’avventura?

Avventura come l’aventiure medievale, quando i rampolli non primogeniti sedicenni delle famiglie nobili venivano equipaggiati di cavallo e scudo, e poi mandati via di casa, affinché scoprissero il mondo e si costruissero una propria esistenza. Oppure come il senso della vita umana, condensato da Dante in una frase: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguire virtute e canoscenza.

So esprimere il mio stato d’animo al meglio con una metafora spaziale: se fossi un satellite, questo sarebbe il momento dove vengo lanciato fuori dall’orbita, e inizio il mio volo alla deriva, senza alcun’ancora o punto fisso; e mi chiedo se potrò decidere io da che parte andare o se sarò in balìa di tutto il resto.

Questa paura / richiamo dell’avventura è un’emozione troppo grande e piena perché io la riesca a descrivere. Non riesco, come con altre emozioni, ad afferrarne il nocciolo, imprigionarlo in una frase e darmi così l’impressione di averla sotto controllo, che sia, vista così, inoffensiva.

Tra una settimana, a quest’ora, sarò a Duino. Avrò rivisto i miei co-anno italiani e i miei secondi che ho conosciuto all’orientation weekend, avrò messo piede a Duino pensando che sì, davvero, studierò e vivrò qui, proprio qui (la prima volta che ho messo piede a Duino pensavo: mi candiderò per i Collegi del Mondo Unito? La seconda: verrò ammessa ai Collegi del Mondo Unito? Non so se, ricordandomi questi pensieri e le emozioni di allora, riuscirò a non commuovermi), avrò conosciuto di persona alcune delle persone con le quali passerò insieme il prossimo anno scolastico, avrò visto la mia residenza e la mia camera, avrò conosciuto la o le mie compagne di stanza.

La prima cosa che farò, appena arrivata in camera, so già cosa sarà: tirerò fuori il violoncello e suonerò Bach. So che sarà un impulso irresistibile, il voler sentirmi a casa – è questo quello che provo quando suono Bach – in quella che sarà la mia casa per i prossimi due anni.

È tutta la vita che aspetto questo momento. Ho sempre, sempre atteso con impazienza il momento in cui sarei andata via da casa, avrei scelto che direzione dare alla mia vita, sarei stata autonoma e indipendente. Credo di aver capito cos’è che ora che il momento è arrivato non mi torna: avevo sempre immaginato la me di questo momento come una specie di supereroina matura, saggia, decisa, sicura. Mentre ora mi sento insicura, fragile e inesperta come sempre. Ma va bene così: allora non avevo capito che nella vita non c’è nessun “punto di arrivo” della propria persona – la supereroina matura, saggia, decisa e sicura – ma che si continua sempre a crescere e cambiare. E non avevo capito che fragilità e insicurezza non sono necessariamente delle cose negative, delle cose che non possono assolutamente far parte dell’eroina.

Il rapporto con i miei genitori in questi giorni è particolare. Dico loro cose che altrimenti non avrei detto, parlo a cuore aperto: per esempio, dopo anni che lo rimandavo, ho finalmente trovato il coraggio di mettere l’orgoglio da parte e dire a mio papà che mi piace molto, la musica che scrive. E lo stesso vale per loro: mia mamma, oggi, mi ha finalmente chiesto se penso che mi piacciano le ragazze o i ragazzi – domanda che temevo da tempo, e ho provato un moto di rabbia nei miei confronti. Per tutta la vita (adolescente) non avevo mai voluto parlarne, temendo che, mettendo in luce una differenza così grande tra me e loro, il nostro rapporto si sarebbe indebolito, raffreddato. E mi sono sempre tenuta tutto dentro. Mentre in questi cinque minuti rilassati e intimi che ne ho parlato con mia mamma mi sono sentita sollevata, libera e vicina a lei come non mai. Tante pippe per niente. Credo che la cultura pop abbia fatto dell’essere Lgbtq+ questa caratteristica importantissima e determinante per la propria persona… quando potrebbe essere semplicemente una caratteristica come tante altre. Perché preferire le ragazze – o non sentirmi una ragazza, ma questo è un discorso che ancora non so come affrontare – dovrebbe essere più importante della mia passione per la composizione, o sapere italiano e tedesco equamente bene (o male)?

Una delle persone più sagge che abbia mai conosciuto mi ha risposto: perché essere Lgbtq+ influisce moltissimo sul rapporto che hai con gli altri, mentre la tua passione per la composizione no.

È vero. Ma nel rapporto che ho con me, comporre è di gran lunga più importante che forse essere trans. Non so, devo pensarci.

Sette giorni. Anzi, adesso mezzanotte è passata. Sono sei.

N.

P.S. Se state leggendo questo blog perché state pensando se candidarvi a UWC… Fatelo. Assolutamente. Anche solo le selezioni sono un’esperienza bellissima. Se avete domande o curiosità che vorreste rivolgere a studenti, potete scrivermi qui nei commenti, oppure scrivere su instagram a “uwc_21”: l’account della generazione ‘21 di ragazzi italiani UWC.

Sul serio: candidatevi.

Consigli per le Selezioni UWC

Avete deciso di candidarvi per le selezioni UWC? Allora questo post fa per voi.

Innanzitutto, se foste ancora in dubbio se candidarvi o meno: candidatevi. Che veniate ammessi ad uno dei collegi o meno, le selezioni saranno una bellissima esperienza che non rimpiangerete di aver fatto.

Paura di candidarvi e poi non venire presi? Chiedetevi se per voi è meglio sognare e poi venire delusi o non sognare affatto, e avrete la risposta.

Punto primo: le selezioni UWC non sono un concorso, né una gara. In entrambe si tratta di misurarsi in una determinata capacità/competenza, per entrambe ci si può preparare studiando o esercitandosi. Le selezioni, d’altro canto, servono a vedere quanto un candidato è adatto all’esperienza UWC. Non potete esercitarvi ad essere adatti a UWC. Non avete alcuna influenza su questo aspetto; o lo siete o non lo siete, e questo lo deciderà la Commissione Nazionale Italiana (CNI).

Punto secondo: UWC è un movimento, oltre che un gruppo di scuole. Le selezioni possono anche aiutarvi a capire se davvero volete farne parte. Importante: non dovete frequentare un collegio per far parte del movimento, ci sono molti modi per partecipare. Se vi accorgete che volete far parte del movimento solo se vi ammettono ad un collegio, forse UWC non è per voi. UWC è molto più di un’esperienza figa di due anni.

Punto terzo: i selezionatori vi provocheranno. Vi faranno domande che non possono avere una risposta giusta o esauriente. Troveranno dei buchi nel vostro ragionamento e si impunteranno su questi. Lo fanno per mettervi alla prova, per farvi usare tutte le vostre risorse creative, perché è il modo migliore per loro di capire chi siete. Sarà intimidatorio, stancante e un po’ irritante; la cosa migliore che potete fare è ricordare che i selezionatori sanno che non siete stupidi, e prenderla come un gioco.

Punto terzo, addendum: i selezionatori in realtà sono carinissimi, anzi, santissimi. Ricordate che fanno tutto questo su base volontaria senza percepire alcun compenso, solo perché vogliono che altre generazioni di ragazzi possano fare l’esperienza UWC. Perciò siate rispettosi e ringraziateli, sempre.

Punto quarto: parlate esclusivamente di cose che conoscete bene, soprattutto nella domanda scritta. La domanda scritta sarà la base per tutte le domande di attitudine personale che vi faranno alle selezioni. Di qualsiasi tema, attività o esperienza che parlate, dovete saperne abbastanza per raccontarne liberamente e anche per manovrare intorno ad eventuali domande trabocchetto da parte dei selezionatori. Se scrivete o dite qualcosa solo per fare bella figura, il rischio di fare qualche brutta gaff è molto grande.

Punto quinto: parlate di cose che vi rendono voi stessi, non “il candidato perfetto per UWC”. Qualcosa come “il candidato perfetto UWC” non esiste, così come “la classica persona UWC”. Vengono ammessi estroversi e introversi, leader e seguaci, topi di biblioteca e avventurieri, idealisti e pessimisti. Solo i selezionatori conoscono i criteri di valutazione. Fidatevi del giudizio dei selezionatori: se siete adatti all’esperienza UWC, verrete selezionati.
Una cosa è certa: se parlerete solo di quanto amate viaggiare, quanto amate conoscere culture diverse, quanto rispettate l’opinione degli altri, quanto vi sentite cittadini del mondo, irriterete sia i selezionatori che gli altri candidati.

Punto sesto: potreste non venire selezionati. E in qual caso, ricordatevi: non è un giudizio sulla vostra persona, ma solo sul fatto se in quel momento della vostra vita siete adatti all’esperienza in un collegio UWC.
Fate le selezioni con un piano B in mente, ancora meglio se avete anche un piano C e un piano D. Non avete alcuna influenza sull’esito delle selezioni. Non potete esercitarvi ad essere adatti a UWC.
Vedete le selezioni come un’esperienza fine a se stessa: un’occasione per mettersi in gioco, scoprire nuovi lati di sé, confrontarsi con altre opinioni e conoscere tante persone fantastiche.

Conoscere nuove persone è stata la cosa che mi è piaciuta di più, forse anche la cosa più importante. Ho scoperto altre vite, altre visioni del mondo, altri sogni; mi sono goduta la connessione che c’è solo tra persone di animo affine. Non importa se andranno a Duino con me, se andranno ai collegi di Friburgo o della Cina, se non sono stati ammessi e passeranno il quarto anno in Danimarca o rimarranno a casa loro. Sono felice di aver passato questa bella e importante esperienza della mia vita – le selezioni UWC – insieme a loro.

Le selezioni mi sono servite anche per conoscermi un po’ meglio. Come dice Epitteto: sono le difficoltà a mostrare gli uomini. Le selezioni sono state così impegnative da far cadere ogni mia maschera, anche quelle che non sapevo di aver indossato.
Che veniate ammessi ad uno dei collegi o meno, le selezioni saranno una bellissima esperienza che non rimpiangerete di aver fatto.

Punto sesto, addendum: scambiatevi i contatti con gli altri candidati! Durante l’attesa per sapere l’esito, avrete bisogno di parlare con qualcuno nella vostra stessa situazione.

Punto settimo: per domande o curiosità, oltre che a scrivere qui nei commenti, potete scrivere a uwc_21 su instagram. È l’account di noi studenti UWC italiani 2019/21, e risponderemo volentieri!

Fortes fortuna adiuvat. In bocca al lupo!

N.