17.

17 giorni, e stamattina rimango in residenza perché ho la sinusite. A quanto pare, 17 porta davvero sfortuna.

Queste prime due settimane hanno deluso alcune aspettative, ma per la maggior parte sono andate molto oltre – in senso positivissimo – a qualsiasi cosa avessi immaginato.

(Ah, se Viviana – la nostra cara insegnante di italiano – leggesse mai queste righe, si metterebbe le mani nei capelli).

La mia residenza è Old Offices, una casetta adorabile di due piani più piano terra. Al piano terra ci sono sette ragazzi, al primo sette ragazze, e al secondo c’è l’appartamento di Pablo, il nostro residence tutor, insegnante di spagnolo A e world literature, nonché scrittore. Se abiti a Old Offices, ti capita di frequente di sostenere la seguente conversazione:
“So, in which residence are you in?”
“I’m in OO (leggi: oh-oh)”
“Ohh…”
E poi chi ride per primo perde.
Avevo sperato di venire assegnata a Fore, la residenza più grande con vista mozzafiato sul mare e direttamente sopra mensa. Ma adesso penso che OO sia la residenza migliore che mi potesse capitare. Innanzitutto, è in un posto strategico: vicina a mensa e a Fore, vicina allo school building, vicina alla gelateria, relativamente vicina a porto e a Conad. E poi, col fatto che siamo solo in sette, è sempre abbastanza silenzioso, ottimo per studiare – finché Muneba non decide che è ora di fare la discoteca nel dayroom – , e l’atmosfera sa molto di casa.

Ho le migliori compagne di stanza del mondo: Feli e Naya, l’una dal Kenya e l’altra dalle Bahamas, sempre di buonumore e sempre intente a procrastinare lo studio o la stesura dell’EE nei modi più creativi, tra i quali inventare nomi in codice per noi tre.

Una mia compagna di residenza è curda, e mi sta insegnando qualche parola in curdo e qualche in arabo. Ieri ho tirato fuori il mio metodo per imparare arabo che mi ero portata da casa, un libriccino compattissimo che sembra più mattone che libro, e per quaranta minuti è stata con me a sfogliarlo, ad insegnarmi la pronuncia giusta e ad aiutarmi nella lettura. Anche una ragazza siriana e una irachena hanno deciso di adottarmi come studentessa. L’una mi ha raccontato molte storie sulla Siria, ma non la Siria che vediamo al telegiornale: una Siria ricca di arte e cultura, con un passato glorioso, dove persone di fedi più diverse convivevano in pace – fino all’inizio del conflitto. L’altra mi ha introdotto ai diversi dialetti arabi con tutte le loro particolarità, nonché alla musica araba e in dialetto iracheno. Ha messo insieme una playlist che sto ascoltando adesso.

La comunità UWC è un mondo a sé, con i suoi riti, le sue caratteristiche e la sua moda. I primi giorni, ad esempio, mi colpiva la quantità di abbracci che ricevevo – e che mi veniva naturale dispensare. C’è molto contatto fisico, qui. Ma se l’altra persona non è un amico stretto, si chiede sempre: “can I hug you?” o “can I put my hand on your shoulder?” All’inizio queste formule mi sembravano molto rigide e artificiali, ma ora non più.

Un’altra caratteristica è che qui, quando si chiede come va, lo si intende davvero. E se l’altra persona non sta bene lo dice, e spiega perché, e allora si ascolta e cerca di dare un po’ di conforto.

E la moda… La moda è inesistente, perché ognuno si veste a proprio piacimento, sovvertendo come minimo una dozzina di norme sociali ogni giorno. Non tutte le ragazze si depilano. Alcuni ragazzi indossano gonne o si truccano. Alcune persone camminano per le strade di Duino senza scarpe (cosa che ha irritato il nostro nuovo rettore un paio di volte). Molti indossano vestiti tradizionali. E nessuno giudica, live and let live è la filosofia, qui.

Il non giudicare è un’altra cosa che mi ha colpito. Ne ho parlato con la mia compagna di residenza curda qualche tempo fa, ed eravamo della stessa opinione: qui ci si sente veramente liberi, perché puoi essere chi vuoi, e nessuno ti giudicherà, ma anzi, ti supporterà.

Un problema però del vivere così tanto e molto assieme è il gossip. Ogni giorno si specula su chi potrebbe mettersi insieme a chi, chi potrebbe aver baciato chi, chi potrebbe essere etero e chi bi e chi gay. E appena tra due persone succede qualcosa, o si presume sia successo qualcosa, nel giro di poche ore lo sa tutta la scuola.

Nella prima settimana c’è stata una delle esperienze più intense della mia vita: l’open mic. Tutti gli studenti si ritrovano nel dayroom di Fore, e a turno, senza annunciarsi o iscriversi prima, persone si alzano in piedi per suonare, cantare, ballare, recitare una poesia o leggere un racconto. Anch’io ho partecipato, suonando il preludio della prima suite di Bach. Imperfetto, a tratti stonato, ruvido, brusco… Ma sono riuscita a dire qualcosa. E all’open mic si tratta proprio di questo: non essere bravi, ma trasmettere qualcosa agli altri attraverso qualcosa che piace fare.

Erano persone che, davanti a tutti, facevano le persone, in tutta la loro imperfetta umanità. Mi sono commossa molte volte: quando una ragazza ha letto una poesia sull’ansia, quando un’altra ha cantato una canzone che sua sorella aveva scritto per sua madre, quando qualcuno ha iniziato a cantare bella ciao e pian piano molti si sono uniti… Alla fine di questo la metà delle persone – me compresa – era in lacrime. Una celebrazione dell’umanità; ritrovare parti di se stessi in altre persone. Sono seguiti molti abbracci, molte conversazioni toccanti, ma tutto in fretta e furia, perché mancavano solo una decina di minuti al coprifuoco. Non dimenticherò mai come, mentre parlavo ad una ragazza, io in lacrime e lei quasi – una conversazione con molti abbracci – è comparsa Gaia, mia adorata seconda anno, e ha gridato: “Ragazze, sì, l’open mic è toccante e tutto, ma voi non capite” – e qui gesticolava da vera italiana del sud – “c’è il coprifuoco, il coprifuoco! Andatevene nelle vostre residenze, e adesso!” Ho riso. La ragazza con cui stavo parlando allora mi ha accompagnata alla mia residenza.

Un’altra esperienza toccante l’ho avuta esattamente una settimana dopo essere arrivata. Una ragazza dell’est europa mi aveva detto che voleva conoscermi meglio, e invitato a fare una passeggiata assieme il sabato sera, dato che il sabato il coprifuoco è soltanto all’una. Sono andata a prenderla alla sua residenza, e da lì abbiamo camminato fino a porto, dove ci siamo sedute ad osservare l’acqua. Era già buio. Mi ha chiesto: “raccontami la tua storia”.
Io: “beh, cosa vorresti sapere?”
E lei: “tutto”.
E l’ho fatto. Ci ho messo due ore e mezza, ma l’ho fatto. Lei è stata seduta accanto in silenzio, ascoltava, e quando mi commuovevo mi abbracciava e mi diceva qualche parola rassicurante.
Ho sentito dire spessissimo che le amicizie della prima settimana non durano mai. Ma onestamente non riesco ad immaginare di perdere i contatti con lei, dopo quella serata.

Scuola è iniziata da una settimana e mezzo. E cavoli, questa sì che è scuola. Non imparare le informazioni a memoria, ma discussione condotta dall’insegnante, che ci mantiene sulla strada giusta. Ci ho messo un po’ ad entrare nella routine scolastica: l’inizio qui mi sapeva molto da campo estivo – attività varie, compagne di stanza e gente da tutto il mondo – e quindi l’idea di scuola sembrava un elemento estraneo a tutta la situazione. E in effetti ci ho messo un po’ a rendermi conto che quello che facciamo qui è davvero scuola: non sono abituata a divertirmi e a imparare effettivamente cose nuove, a scuola.

Settimana scorsa ho scelto la mia attività sportiva: vela. Ero arrivata qui superconvinta di prendere nuoto… Ma poi sono andata alla taster session per sailing, e mi sono innamorata: il vento in viso e l’acqua sotto le dita. Come servizio per la comunità ho scelto homeless people in Trieste, solo successivamente ho sentito che molti secondi ne parlano in modo non troppo positivo. Vedrò. Come attività creativa sceglierò il Music Programme, e ci aggiungerò lezioni di violoncello e musica da camera, e forse coro. Il Maestro Sacher ha invitato me e altri tre studenti ad unirsi ad un’orchestra semiprofessionale a Trieste che ha fondato lui. Sabato scorso ci sono state le prime prove… Bellissimo. Semplicemente bellissimo.

Sono felice di essere qui. So che qui diventerò la persona che voglio essere / che posso essere. Sono al posto giusto al momento giusto.

N.

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