Karaoke, Assemblea, e una mezz'ora su Fore balcony

Sono decisa a vedere tutto questo come parte dell’esperienza UWC.

Mi ricordo l’ultima domenica “normale”. Ero decisa a studiare. L’ho passata principalmente nella sala comune di OO con T. e L., tutte e tre chinate sui libri, e chiacchierando ogni tanto. Subito dopo pranzo io e T. ancora non avevamo le energie per rimetterci al lavoro, quindi, insieme a M., abbiamo passato una buona mezz’ora a cantare canzoni pop mettendo su Youtube la versione karaoke. C’era qualcosa di definitivo, in quella mezz’ora. Abbiamo cantato a squarciagola, come se ci fosse un’urgenza di liberarci di qualcosa dentro, di doverlo tirare fuori, e subito. Come se avessimo intuito che quella era una fine. Take me to church, Skyfall, Dance Monkey. O forse eravamo tutte e tre al massimo della nostra tolleranza dello stress – da qui la fine – e volevamo liberarcene, anche solo per poco – da qui l’urgenza di tirare fuori qualcosa da dentro.

Il pomeriggio lo abbiamo passato ad aspettare l’assemblea d’urgenza delle 18. Ne ho parlato con Feli sulla strada tra OO e l’aula magna: quella è stata probabilmente l’assemblea più attesa di sempre.

Due settimane di chiusura. Project week cancellata. 24 ore per evacuare. Questi i punti principali del discorso di Will, il nostro rettore. Al termine una buona fetta degli studenti era in lacrime. Ho pensato di essere molto fortunata a frequentare una scuola che, quando chiude per due settimane, gli studenti piangono.

Ho accolto la notizia quasi con sollievo. Due settimane di quasi-pausa a casa mi avrebbero fatto bene, lo stress era diventato tanto. Feli, la mia compagna di stanza sarebbe venuta con me! Sarebbe quindi stata un’occasione per farle vedere la mia casa e la mia città, farle conoscere i miei, e soprattutto per conoscerci meglio. Sarebbero state due settimane molto belle. Peccato per la Project Week però… Doveva tenersi nella città di una mia buona amica e dovevamo anche dormire a casa sua; non avevo visto l’ora di conoscerla meglio attraverso l’ambiente in cui è cresciuta.

Le successive 24 ore mi sono state una lezione importante. Vedere chi mi è venuto naturale cercare mi ha fatto capire chi sono le persone alle quali tengo di più. Interessante notare che non sempre coincidevano con le persone con le quali passo maggiormente il tempo.

Mi ricorderò per molto tempo la mezz’ora tra le 19:30 e le 20 del lunedì sera. Una seconda che avevo appena iniziato a conoscere, incontrata per caso sul balcone di Fore, mi ha detto: alle 20 ho il bus, quindi non ho molto tempo, ascolta. E in mezz’ora mi ha raccontato sé e la sua vita sotto un preciso punto di vista, un aspetto di cui io e lei avevamo discusso la sera prima. Mi ha colpito l’urgenza – anche qui – che percepivo da parte sua. La solennità. Prima di partire per l’incertezza e lo sconosciuto che ci aspetta tutti, devo dirti questo, per me è importante che tu lo sappia. Sono felice di aver provato questa sensazione: di sentirmi così vicina, così simile ad un altro essere umano. Non so per lei quella mezz’ora che significato abbia avuto. Ma per me ha significato molto.

Mi mancheranno molto le domeniche di studio a Old Offices. Io, T., e forse qualcun altro della popolazione di OO. Tutte insieme nella sala comune, a studiare, tenersi compagnia, chiacchierare e occasionalmente cantare. E ovviamente andare insieme a pranzo a mangiare le patatine della domenica. Proprio come una piccola famiglia. Settimana scorsa abbiamo fatto una videochiamata, noi ragazze di OO, due ore passate a non dire niente di preciso e a ridere molto. Quanto voglio loro bene.

What If, Domino e Covid19

Il collegio è chiuso per il resto dell’anno accademico. Questa mail ha messo fine all’incertezza e mi ha portato sollievo. Ormai, mi aspettavo questo finale.

Penso ai miei secondi anno. Quelli che volevo conoscere meglio e quelli che avevo solo iniziato a conoscere. Pensare a loro fa male, il male del “what if”. Mi vengono in mente ricordi di loro che non sapevo nemmeno di avere, piccoli momenti sparsi qua e là.

Mi rendo conto di quanto l’esperienza di Duino mi abbia arricchito. Sono cresciuta, sono maturata, sono più simile alla persona che voglio essere / che sento di essere dentro di quanto lo sia mai stata. A Duino ho sperimentato come sia essere liberi di essere, liberi di esprimersi, liberi di vivere. Duino ha sbloccato dentro di me qualcosa, ha messo in moto un meccanismo stile domino che anche adesso, lontana da lì, non si è fermato. E nonostante la tristezza per i tre mesi che ci sono stati rubati, sono ancora più felice per i cinque che abbiamo avuto.

Come mi ha detto una mia cara omonima amica, la nostra esperienza UWC è unica ed è inseparabile dal Covid19. Ha un lato negativo unico che porta con sé un lato positivo unico (di cui presto ci renderemo conto).

Momenti

Questo posto è fatto di momenti preziosi.


H. che, durante l’ora di inglese, scrive “ciao, bellissima” in arabo sui miei appunti.


Facendo i compiti in biblioteca, R. che prende il suo righello pieghevole, lo curva e annuncia: “I’m straight as my ruler”.


La sera tardi, stare da sola distesa sul molo a guardare le stelle.


Accompagnare col violoncello il coro durante il primo concerto degli studenti del Collegio.


G. che, di ritorno da casa, mi porta un pezzo di torta di sua nonna.


Il sabato sera con le mie compagne di stanza, patatine e biscotti davanti a Netflix per un paio d’ore.


La sera nell’aula di musica, F. suona la chitarra e noi cantiamo.


Ascoltare musica con M. guardando i tetti di Duino.


L. che la sera viene in camera mia per leggermi una poesia.


Una discussione con molto coinvolgimento a Global Politics, dopo la quale ho la sensazione di aver davvero imparato qualcosa.


La sera di una giornata intensa e emozionale, vado a letto e penso: “sono una persona migliore di quella che ero stamattina”.

Una ragazza qui, una settimana fa, ha deciso di togliersi l’hijab. Non è stata una decisione facile. I suoi genitori non lo sanno. Da quando l’ha fatto la vedo più serena, più in pace con sé stessa.

N.

17.

17 giorni, e stamattina rimango in residenza perché ho la sinusite. A quanto pare, 17 porta davvero sfortuna.

Queste prime due settimane hanno deluso alcune aspettative, ma per la maggior parte sono andate molto oltre – in senso positivissimo – a qualsiasi cosa avessi immaginato.

(Ah, se Viviana – la nostra cara insegnante di italiano – leggesse mai queste righe, si metterebbe le mani nei capelli).

La mia residenza è Old Offices, una casetta adorabile di due piani più piano terra. Al piano terra ci sono sette ragazzi, al primo sette ragazze, e al secondo c’è l’appartamento di Pablo, il nostro residence tutor, insegnante di spagnolo A e world literature, nonché scrittore. Se abiti a Old Offices, ti capita di frequente di sostenere la seguente conversazione:
“So, in which residence are you in?”
“I’m in OO (leggi: oh-oh)”
“Ohh…”
E poi chi ride per primo perde.
Avevo sperato di venire assegnata a Fore, la residenza più grande con vista mozzafiato sul mare e direttamente sopra mensa. Ma adesso penso che OO sia la residenza migliore che mi potesse capitare. Innanzitutto, è in un posto strategico: vicina a mensa e a Fore, vicina allo school building, vicina alla gelateria, relativamente vicina a porto e a Conad. E poi, col fatto che siamo solo in sette, è sempre abbastanza silenzioso, ottimo per studiare – finché Muneba non decide che è ora di fare la discoteca nel dayroom – , e l’atmosfera sa molto di casa.

Ho le migliori compagne di stanza del mondo: Feli e Naya, l’una dal Kenya e l’altra dalle Bahamas, sempre di buonumore e sempre intente a procrastinare lo studio o la stesura dell’EE nei modi più creativi, tra i quali inventare nomi in codice per noi tre.

Una mia compagna di residenza è curda, e mi sta insegnando qualche parola in curdo e qualche in arabo. Ieri ho tirato fuori il mio metodo per imparare arabo che mi ero portata da casa, un libriccino compattissimo che sembra più mattone che libro, e per quaranta minuti è stata con me a sfogliarlo, ad insegnarmi la pronuncia giusta e ad aiutarmi nella lettura. Anche una ragazza siriana e una irachena hanno deciso di adottarmi come studentessa. L’una mi ha raccontato molte storie sulla Siria, ma non la Siria che vediamo al telegiornale: una Siria ricca di arte e cultura, con un passato glorioso, dove persone di fedi più diverse convivevano in pace – fino all’inizio del conflitto. L’altra mi ha introdotto ai diversi dialetti arabi con tutte le loro particolarità, nonché alla musica araba e in dialetto iracheno. Ha messo insieme una playlist che sto ascoltando adesso.

La comunità UWC è un mondo a sé, con i suoi riti, le sue caratteristiche e la sua moda. I primi giorni, ad esempio, mi colpiva la quantità di abbracci che ricevevo – e che mi veniva naturale dispensare. C’è molto contatto fisico, qui. Ma se l’altra persona non è un amico stretto, si chiede sempre: “can I hug you?” o “can I put my hand on your shoulder?” All’inizio queste formule mi sembravano molto rigide e artificiali, ma ora non più.

Un’altra caratteristica è che qui, quando si chiede come va, lo si intende davvero. E se l’altra persona non sta bene lo dice, e spiega perché, e allora si ascolta e cerca di dare un po’ di conforto.

E la moda… La moda è inesistente, perché ognuno si veste a proprio piacimento, sovvertendo come minimo una dozzina di norme sociali ogni giorno. Non tutte le ragazze si depilano. Alcuni ragazzi indossano gonne o si truccano. Alcune persone camminano per le strade di Duino senza scarpe (cosa che ha irritato il nostro nuovo rettore un paio di volte). Molti indossano vestiti tradizionali. E nessuno giudica, live and let live è la filosofia, qui.

Il non giudicare è un’altra cosa che mi ha colpito. Ne ho parlato con la mia compagna di residenza curda qualche tempo fa, ed eravamo della stessa opinione: qui ci si sente veramente liberi, perché puoi essere chi vuoi, e nessuno ti giudicherà, ma anzi, ti supporterà.

Un problema però del vivere così tanto e molto assieme è il gossip. Ogni giorno si specula su chi potrebbe mettersi insieme a chi, chi potrebbe aver baciato chi, chi potrebbe essere etero e chi bi e chi gay. E appena tra due persone succede qualcosa, o si presume sia successo qualcosa, nel giro di poche ore lo sa tutta la scuola.

Nella prima settimana c’è stata una delle esperienze più intense della mia vita: l’open mic. Tutti gli studenti si ritrovano nel dayroom di Fore, e a turno, senza annunciarsi o iscriversi prima, persone si alzano in piedi per suonare, cantare, ballare, recitare una poesia o leggere un racconto. Anch’io ho partecipato, suonando il preludio della prima suite di Bach. Imperfetto, a tratti stonato, ruvido, brusco… Ma sono riuscita a dire qualcosa. E all’open mic si tratta proprio di questo: non essere bravi, ma trasmettere qualcosa agli altri attraverso qualcosa che piace fare.

Erano persone che, davanti a tutti, facevano le persone, in tutta la loro imperfetta umanità. Mi sono commossa molte volte: quando una ragazza ha letto una poesia sull’ansia, quando un’altra ha cantato una canzone che sua sorella aveva scritto per sua madre, quando qualcuno ha iniziato a cantare bella ciao e pian piano molti si sono uniti… Alla fine di questo la metà delle persone – me compresa – era in lacrime. Una celebrazione dell’umanità; ritrovare parti di se stessi in altre persone. Sono seguiti molti abbracci, molte conversazioni toccanti, ma tutto in fretta e furia, perché mancavano solo una decina di minuti al coprifuoco. Non dimenticherò mai come, mentre parlavo ad una ragazza, io in lacrime e lei quasi – una conversazione con molti abbracci – è comparsa Gaia, mia adorata seconda anno, e ha gridato: “Ragazze, sì, l’open mic è toccante e tutto, ma voi non capite” – e qui gesticolava da vera italiana del sud – “c’è il coprifuoco, il coprifuoco! Andatevene nelle vostre residenze, e adesso!” Ho riso. La ragazza con cui stavo parlando allora mi ha accompagnata alla mia residenza.

Un’altra esperienza toccante l’ho avuta esattamente una settimana dopo essere arrivata. Una ragazza dell’est europa mi aveva detto che voleva conoscermi meglio, e invitato a fare una passeggiata assieme il sabato sera, dato che il sabato il coprifuoco è soltanto all’una. Sono andata a prenderla alla sua residenza, e da lì abbiamo camminato fino a porto, dove ci siamo sedute ad osservare l’acqua. Era già buio. Mi ha chiesto: “raccontami la tua storia”.
Io: “beh, cosa vorresti sapere?”
E lei: “tutto”.
E l’ho fatto. Ci ho messo due ore e mezza, ma l’ho fatto. Lei è stata seduta accanto in silenzio, ascoltava, e quando mi commuovevo mi abbracciava e mi diceva qualche parola rassicurante.
Ho sentito dire spessissimo che le amicizie della prima settimana non durano mai. Ma onestamente non riesco ad immaginare di perdere i contatti con lei, dopo quella serata.

Scuola è iniziata da una settimana e mezzo. E cavoli, questa sì che è scuola. Non imparare le informazioni a memoria, ma discussione condotta dall’insegnante, che ci mantiene sulla strada giusta. Ci ho messo un po’ ad entrare nella routine scolastica: l’inizio qui mi sapeva molto da campo estivo – attività varie, compagne di stanza e gente da tutto il mondo – e quindi l’idea di scuola sembrava un elemento estraneo a tutta la situazione. E in effetti ci ho messo un po’ a rendermi conto che quello che facciamo qui è davvero scuola: non sono abituata a divertirmi e a imparare effettivamente cose nuove, a scuola.

Settimana scorsa ho scelto la mia attività sportiva: vela. Ero arrivata qui superconvinta di prendere nuoto… Ma poi sono andata alla taster session per sailing, e mi sono innamorata: il vento in viso e l’acqua sotto le dita. Come servizio per la comunità ho scelto homeless people in Trieste, solo successivamente ho sentito che molti secondi ne parlano in modo non troppo positivo. Vedrò. Come attività creativa sceglierò il Music Programme, e ci aggiungerò lezioni di violoncello e musica da camera, e forse coro. Il Maestro Sacher ha invitato me e altri tre studenti ad unirsi ad un’orchestra semiprofessionale a Trieste che ha fondato lui. Sabato scorso ci sono state le prime prove… Bellissimo. Semplicemente bellissimo.

Sono felice di essere qui. So che qui diventerò la persona che voglio essere / che posso essere. Sono al posto giusto al momento giusto.

N.

Sette giorni.

Sette giorni. Adesso me ne sono resa conto.

Ironicamente, la presa di coscienza è avvenuta durante una conversazione con una mia cara co-anno / amica, scambiandoci insicurezze e aspettative e parlando, appunto, di quanto partire sembrasse così irreale. E proprio a quel punto la partenza imminente è diventata reale.

Mi verrebbe da dire che ho paura. Ma quello che provo non è paura, è un’emozione che non ho mai provato prima, e che non so ben definire. È un’allerta, una messa in guardia, un alzare le proprie difese, ma senza l’impulso di scappare. Anzi, provo proprio il contrario. Forse potrei chiamarlo richiamo dell’avventura?

Avventura come l’aventiure medievale, quando i rampolli non primogeniti sedicenni delle famiglie nobili venivano equipaggiati di cavallo e scudo, e poi mandati via di casa, affinché scoprissero il mondo e si costruissero una propria esistenza. Oppure come il senso della vita umana, condensato da Dante in una frase: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguire virtute e canoscenza.

So esprimere il mio stato d’animo al meglio con una metafora spaziale: se fossi un satellite, questo sarebbe il momento dove vengo lanciato fuori dall’orbita, e inizio il mio volo alla deriva, senza alcun’ancora o punto fisso; e mi chiedo se potrò decidere io da che parte andare o se sarò in balìa di tutto il resto.

Questa paura / richiamo dell’avventura è un’emozione troppo grande e piena perché io la riesca a descrivere. Non riesco, come con altre emozioni, ad afferrarne il nocciolo, imprigionarlo in una frase e darmi così l’impressione di averla sotto controllo, che sia, vista così, inoffensiva.

Tra una settimana, a quest’ora, sarò a Duino. Avrò rivisto i miei co-anno italiani e i miei secondi che ho conosciuto all’orientation weekend, avrò messo piede a Duino pensando che sì, davvero, studierò e vivrò qui, proprio qui (la prima volta che ho messo piede a Duino pensavo: mi candiderò per i Collegi del Mondo Unito? La seconda: verrò ammessa ai Collegi del Mondo Unito? Non so se, ricordandomi questi pensieri e le emozioni di allora, riuscirò a non commuovermi), avrò conosciuto di persona alcune delle persone con le quali passerò insieme il prossimo anno scolastico, avrò visto la mia residenza e la mia camera, avrò conosciuto la o le mie compagne di stanza.

La prima cosa che farò, appena arrivata in camera, so già cosa sarà: tirerò fuori il violoncello e suonerò Bach. So che sarà un impulso irresistibile, il voler sentirmi a casa – è questo quello che provo quando suono Bach – in quella che sarà la mia casa per i prossimi due anni.

È tutta la vita che aspetto questo momento. Ho sempre, sempre atteso con impazienza il momento in cui sarei andata via da casa, avrei scelto che direzione dare alla mia vita, sarei stata autonoma e indipendente. Credo di aver capito cos’è che ora che il momento è arrivato non mi torna: avevo sempre immaginato la me di questo momento come una specie di supereroina matura, saggia, decisa, sicura. Mentre ora mi sento insicura, fragile e inesperta come sempre. Ma va bene così: allora non avevo capito che nella vita non c’è nessun “punto di arrivo” della propria persona – la supereroina matura, saggia, decisa e sicura – ma che si continua sempre a crescere e cambiare. E non avevo capito che fragilità e insicurezza non sono necessariamente delle cose negative, delle cose che non possono assolutamente far parte dell’eroina.

Il rapporto con i miei genitori in questi giorni è particolare. Dico loro cose che altrimenti non avrei detto, parlo a cuore aperto: per esempio, dopo anni che lo rimandavo, ho finalmente trovato il coraggio di mettere l’orgoglio da parte e dire a mio papà che mi piace molto, la musica che scrive. E lo stesso vale per loro: mia mamma, oggi, mi ha finalmente chiesto se penso che mi piacciano le ragazze o i ragazzi – domanda che temevo da tempo, e ho provato un moto di rabbia nei miei confronti. Per tutta la vita (adolescente) non avevo mai voluto parlarne, temendo che, mettendo in luce una differenza così grande tra me e loro, il nostro rapporto si sarebbe indebolito, raffreddato. E mi sono sempre tenuta tutto dentro. Mentre in questi cinque minuti rilassati e intimi che ne ho parlato con mia mamma mi sono sentita sollevata, libera e vicina a lei come non mai. Tante pippe per niente. Credo che la cultura pop abbia fatto dell’essere Lgbtq+ questa caratteristica importantissima e determinante per la propria persona… quando potrebbe essere semplicemente una caratteristica come tante altre. Perché preferire le ragazze – o non sentirmi una ragazza, ma questo è un discorso che ancora non so come affrontare – dovrebbe essere più importante della mia passione per la composizione, o sapere italiano e tedesco equamente bene (o male)?

Una delle persone più sagge che abbia mai conosciuto mi ha risposto: perché essere Lgbtq+ influisce moltissimo sul rapporto che hai con gli altri, mentre la tua passione per la composizione no.

È vero. Ma nel rapporto che ho con me, comporre è di gran lunga più importante che forse essere trans. Non so, devo pensarci.

Sette giorni. Anzi, adesso mezzanotte è passata. Sono sei.

N.

P.S. Se state leggendo questo blog perché state pensando se candidarvi a UWC… Fatelo. Assolutamente. Anche solo le selezioni sono un’esperienza bellissima. Se avete domande o curiosità che vorreste rivolgere a studenti, potete scrivermi qui nei commenti, oppure scrivere su instagram a “uwc_21”: l’account della generazione ‘21 di ragazzi italiani UWC.

Sul serio: candidatevi.